São Mateus, 26 giugno 2025
- Chiara Speziale
- 15 lug
- Tempo di lettura: 5 min

Il quilombo in cui abbiamo appena trascorso tre intensissime giornate di formazione - "Escola de ativismo" la denominazione ufficiale - si chiama "Alegria".
Mi ha sempre colpito la creatività con la quale i Brasilani più poveri sanno trovare nomi - ai nostri occhi incongrui e contraddittori - per i luoghi nei quali conducono la loro dura esistenza. "Jardim": giardino (Jardim Primavera, Bom Jardim...) indica molte delle peggiori favelas, nelle quali non ci sono né un fiore né uno schizzo di verde, ma unicamente degrado, miseria e spesso violenza e morte.
L'evocazione poetica ed il suono rassicurante e dolce del nome manifestano il desiderio di bellezza, pienezza e serenità che pervade, nonostante tutto, l'animo degli abitanti, i cui occhi sanno vedere al di là dello squallore in cui si trovano, ma nel quale non si identificano.
C'è sempre questa capacità di aspirare "al di là", che esprime la forza inesauribile della loro adesione alla vita, da cui appunto fiorisce anche nelle situazioni più estreme una indomita creatività. "Aqui se sofre divertido": "Non rinunciamo all'allegria neppure in mezzo alle più dure sofferenze".

"Alegria", appunto, è parola molto usata, che assume una pregnanza incomparabilmente più forte che da noi. Non si tratta di un semplice stato d'animo, quanto di una scelta; un'intima e tenace determinazione che non rimane circoscritta al singolo: si espande, crea un contesto, un clima, un ambiente. Si tratta di un sentimento collettivo che si traduce in azione; marca e contrassegna il territorio; si fa cifra dell'abitare in forma condivisa uno spazio. "Alegria" è la dimensione propria del vivere umano nel mondo.
Il quilombo "Alegria" è una comunità rurale non facile da raggiungere. Bisogna percorrere una lunga pista sterrata (fortuna che non piove!) che attraversa la foresta di cocchi che dá il nome (Cocais) all'ampia regione che si estende in più stati. L'ambiente, verdissimo e rigoglioso, è fortemente suggestivo. Le abitazioni, isolate o in piccoli gruppi, sono le tipiche "casas de taipa": costruzioni semplicissime - vere e proprie capanne - realizzate con una struttura di canne o rami intrecciati riempita con la terra argillosa del suolo. Il tetto, costituito da rami di palma, è il più adatto al clima perché fa filtrare l'aria, protegge dal caldo soffocante e ripara ottimamente dalle violente pioggie equatoriali.

Il focolare, anch'esso di terra, è all'esterno ed ha un uso per lo più collettivo.
Qui condividiamo con una cinquantina di rappresentanti di diverse comunità rurali tradizionali: quilombolas e quebradoras de coco, un percorso di conoscenza, denuncia, analisi, riflessione e delineazione di strategie. Nonostante la drammaticità dei racconti: violenze, agguati, omicidi, abusi e soprusi d'ogni tipo, il clima è gioioso. Come sempre, noi facciamo fatica a capire. Questi uomini e queste donne - la maggioranza è femminile - che vivono sotto minaccia, hanno avuto la casa invasa da uomini armati, genitori fratelli figli amici uccisi, sono sfuggiti ad agguati mortali, devono muoversi in gruppo e stabilire turni di sorveglianza per lavorare la loro terra, spostarsi di nascosto e tener segreti i propri movimenti, come possono presentarsi sorridenti, esprimersi con ironia, manifestare umorismo e fiducia? Il clima è quasi gioioso: ogni sezione di incontro inizia con musica, canti (spesso improvvisati) mai lamentosi e pieni di poesia, danze sempre estremamente vivaci.
Donde sgorga questa "alegria"?
Pian piano, prestando attenzione, sforzandoci di uscire dalle nostre categorie per farci coinvolgere dalle loro, partecipando - per quanto a noi possibile - ai canti ed alle danze, cominciamo ad intuire. È perché, nonostante tutto, sono qui, insieme, riuniti. Questa è già una vittoria. Hanno resistito e stanno delineando strategie per continuare a resistere. I loro nemici sono estremamente potenti: le società transnazionali dell'agroindustria, che hanno il sostegno delle autorità politiche locali e nazionali perché producono ricchezza monetaria attraverso lo sfruttamento e l'esportazione delle risorse, hanno al loro servizio uomini armati ("capanga": sicari), controllano polizia e magistratura; manovrano, corrompono e ingannano.

Nonostante tutto, loro sono qui: espressione di un territorio che rispettano ed amano, che intendono difendere con tutte le loro forze perché, come ha dichiarato Joelma, vecchia e coriacea militante dall'incredibile vitalità: "Non possiamo dire di avere cura di noi stessi se non l'abbiamo per il nostro territorio, che ci appartiene come noi apparteniamo a lui". È da questa consapevolezza di avere un compito, una missione, trasmessa dai progenitori che hanno fondato queste comunità conquistando con coraggio ed astuzia una libertà che sentono di dover difendere ed a cui non intendono rinunciare; è da questa corrente che chiamano "ancestralità" che derivano forza, energia, fermezza, fiducia. Che non sono sentimenti o atteggiamenti individuali, ma costituiscono quella dimensione collettiva che, appunto, rappresenta la comunità.
A conclusione dell'incontro noi ci interroghiamo sul senso e le prospettive di questa lotta, che appare così impari. Romantica, certo, e suscitatrice di simpatia e solidarietà, ma con quali possibilità di successo? A prima vista nessuna. Come possono piccole comunità rurali che praticano una agricoltura poco più che di sussistenza, utilizzando pratiche tradizionali - cioè arcaiche -, per non parlare di quelle che vivono quasi esclusivamente della raccolta dei cocchi babaçu e burití che crescono spontanei nella foresta; comunità che sembrerebbero collocarsi tra paleolitico e neolitico, trovare spazio e possibilità di sviluppo nel sofisticato ed ultra tecnologico mondo di oggi? Si direbbero reperti archeologici, sorta di fossili fatalmente destinati a sparire o, al massimo, a venire conservati per mera curiosità etnografica in minuscole riserve sempre più ridotte; spazi virtuali più che reali territori. Questo è esattamente quanto pensa la maggioranza dei Brasiliani e la totalità di quanti detengono - in Brasile e fuori - una qualche forma di potere. Comunità primitive, che non producono ricchezza, non fanno crescere il pil; occupano spazi del tutto sproporzionati al loro ridottissimo potenziale economico, sottraendoli alle società dell'agroindustria ed ai fazendeiros che potrebbero farli rendere cento, mille, diecimila volte di più. Perché difenderle? Perché, con quale vantaggio e motivazioni sostenerne la lotta e la sopravvivenza? Questo il punto di vista del potere e di conseguenza del senso comune.

Sembra oggettivo ed indiscutibile, ma è solo "un" punto di vista e, come qui si dice: ogni punto di vista non è che la vista di un punto. Si può guardare e giudicare da una prospettiva totalmente differente.
Per esempio assumendo quella di Evelen e Cleton, due ragazzi di vent'anni, quilombolas, che studiano all'università: la prima storia ed antropologia, il secondo agraria. Il loro intento è di appropriarsi degli strumenti culturali propri del mondo moderno, non per uscire dalle loro comunità ma per rafforzarle. In modo diverso, entrambi progettano di offrire un contributo, scientificamente qualificato, per consentirne la sopravvivenza e lo sviluppo, senza snaturarle. Da un lato migliorando le tecniche agricole, dall'altro arricchendo ed approfondendo la conoscenza della loro storia, valorizzandone le radici e rinforzando la propria identità culturale. Non l'artificiosa ed ideologica conservazione di anacronistici reperti preistorici, ma la crescita economica, culturale e sociale di realtà vive e vitali.
Guardando da questa prospettiva, il giudizio può essere addirittura rovesciato: non sterili residui di un remoto passato ormai privo di valore, ma avamposti di un immediato e sempre più urgente futuro. Sono queste comunità ad indicare - in modo assolutamente concreto e realistico - l'unica strada praticabile per realizzare quella ecologia integrale di cui tanto si parla, per lo più in maniera del tutto astratta e fumosa. Il loro rapporto con la natura: terra, acqua, aria; prodotti del suolo e del sottosuolo; il rispetto e la preservazione dell'ambiente da cui ricavano le risorse e che contemporaneamente contribuiscono a preservare - mentre il resto dell'umanità è impegnato a distruggerlo - rappresentano - possono e dovrebbero rappresentare - un modello assolutamente attuale e fecondo, da conoscere, studiare, valorizzare ed imitare - con i necessari ed opportuni adattamenti e variazioni - per affrontare la sempre più incombente catastrofe ambientale, che è altresì culturale e sociale.
Da "questo" punto di vista, la "loro" lotta può apparire la nostra; il "nostro" aiuto alla loro resistenza, il contributo volto a favorire lo studio e la frequenza universitaria dei loro giovani possono risultare strumenti - forse gli unici veramente efficaci - per la nostra collettiva sopravvivenza.



Commenti