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Apac - Betim, 27 de junho 2025


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"Aqui entra o homen, o delito fica [rimane] lá fora"

La scritta che sovrasta quella che in un differente contesto sarebbe la porta di accesso alle sezioni in cui stanno i detenuti ci dice subito che siamo in un carcere, ma in un carcere del tutto particolare, con la netta contrapposizione tra " uomo" e "delitto", che normalmente vengono identificati. Per meglio dire: il primo viene totalmente appiattito, schiacciato dal secondo, fino a scomparire.

Qui, al contario, viene fatto riemergere, riscattato.

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Siamo, infatti, in un "Centro de reintegração social"; uno dei 68 istituti del circuito APAC: "Associação de proteção e assistência aos condenados".

Visitandolo realizzo un mio antico desiderio. Non rimango deluso, tutt'altro. L'immersione in questa realtà costituisce una esperienza molto forte, coinvolgente ed emozionante, soprattutto per chi conosce un po' la condizione ed il regime generale delle carceri brasiliane - per altro non troppo dissimili da quelle italiane non per niente ripetutamente condannate dalla Corte Europea dei Diritti Umani per trattamenti equiparabili a tortura.

Con un milione di detenuti su 211 milioni di abitanti, il Brasile è uno dei paesi al mondo con il maggior numero, sia in valore assoluta che in percentuale, di reclusi. Quasi sempre stipati in condizioni terribili in istituti pesantemente sovraffollati con due, tremila persone, dove non sono niente altro che numeri.

Qui la scritta ci dice che sono "uomini", persone; e che, appunto  "non" si identificano col reato o con i reati commessi, indipendentemente dal numero e dalla gravità. Anche per questo motivo non sono più di 200 in ogni istituto.

Il fondatore, nel 1972 - nel pieno della dittatura: il paradosso e la contraddizione sono la cifra del Brasile - ha calcolato che 200 rappresenta il numero massimo di persone che ognuno può conoscere direttamente ricordandone il nome.

Ed è con il loro nome che, infatti, si presentano. Perché sono loro stessi ad avere la gestione del carcere. Aprono e chiudono le porte, sia quelle interne, sia quella che dá accesso all'esterno. Non ci sono guardie; solo un direttore, alcuni funzionari amministrativi, molti volontari e, appunto, i detenuti che qui vengono chiamati "recuperandos".

La dimensione semantica, sempre ed ovunque importante, in carcere risulta fondamentale. "De-tenuto", "tenuto [chiuso] in un luogo separato", sottolinea  la reclusione, l'allontanamento, la separazione dal contesto sociale. La persona detenuta non è come le altre: un diverso per sua colpa. E questo la connota, segnandone il destino. Il più delle volte per sempre. È imprigionata, innanzi tutto, dal - e nel - suo passato, da cui molto difficilmente potrà liberarsi. Denominandola "recuperando" si rovescia la prospettiva: si guarda e scommette sul futuro; si investe sulle sue possibilità e capacità di trasformazione. Che è esattamente quanto qui ci si impegna a fare.


Iniziamo la visita accompagnati da Luiz, giovane recuperando prossimo all'uscita dopo 13 anni di Apac e 3 precedenti nel regime normale.


Ci guida nella prima sezione, quella destinata al regime semiaperto. Qui una ottantina di persone sono impegnate in varie attività lavorative, svolte per lo più per ditte esterne che hanno aperto laboratori all'interno dell'istituto. Hanno un contratto regolare e ricevono un salario; inferiore - è vero - rispetto al normale, ma tale da consentire loro di accantonare una somma che potranno impiegare a fine condanna e con la quale possono già ora aiutare la famiglia. Soprattutto, assicura il loro futuro: il rapporto lavorativo continuerà - a salario pieno - una volta conclusa la condanna. Che, del resto, si riduce di 1/4: un giorno in meno ogni tre di lavoro o di studio.


La famiglia svolge un ruolo importante: vive nelle vicinanze ed è direttamente coinvolta. Sono previste le "visite intime": due ore ogni 15 giorni, in ambiente protetto ed accogliente. In Italia la Corte Costituzionale si è pronunciata a favore, ma...

Lavoro, studio, responsabilizzazione, sostegno alle relazioni familiari ed amicali fanno sì che, a fine pena - ma forse bisognerebbe utilizzare un termine differente - la persona "recuperata" si trova inserita - spesso per la prima volta - in modo positivo nel contesto sociale che, a sua volta, è stato preparato ed aiutato ad accoglierla. Ciò riduce drasticamente la recidiva: in Brasile dell'80%, in Italia del 70, nel circuito Apac del 13. In questo specifico istituto, di recente fondazione - tre anni - finora nessuno.


A conclusione di questa prima parte, essendosi creata una certa confidenza, Luiz - che ha cercato di capire chi siamo e perché siamo arrivati qui - ci dice di essere stato un "menino de rua". Ora ha un futuro: sorride e gli brillano gli occhi.

Mi viene in mente il mio giovane amico David, suicida per mancanza di prospettive e - io sono convinto - di qualcuno che lo ascoltasse...


La visita in questa prima sezione si conclude nell'orto, ampio e molto curato. Il recuperando che è responsabile ci mostra con orgoglio la sua ultima, recentissima realizzazione: una vasca di piscicultura; serve all'alimentazione - ottima - ed alla vendita. Il Centro è strutturato in modo da avere una certa capacità di generazione di reddito, che in parte va ai recuperandi, in parte abbassa i costi  che sono circa un terzo rispetto al circuito "normale": 1.500 reais per mese per ciascuno, contro 4.500.


L'orto, i laboratori, un bellissimo patio luminoso e fiorito: qui lo spazio è importante, previsto e curato. Chi conosce un po' il carcere sa quanto lo spazio - angusto  se non inesistente - squallido, opprimente e totalmente inospitale contribuisca a rendere vuoto ed insensato il tempo della detenzione.

Qui gli spazi, per quanto limitati, sono studiati per essere funzionali. Le celle ad otto posti, luminose e  molto ordinate, hanno un arredamento essenziale ma funzionale, che consente ad ognuno di avere un certo numero di capi di abbigliamento ed oggetti personali. Ciò favorisce il rispetto della personalità. Ad ogni cella è anessa una stanza da bagno, ampia e dignitosissima, con water - non la turca da cui escono ratti - e doccia con acqua calda. Soprattutto, durante il giorno sono chiuse, il che ne fa veramente " stanze di pernottamento" - come vorrebbe il nostro Ordinamento Penitenziario. Il fatto è che qui, a differenza che da noi, durante il giorno ognuno ha altri posti in cui stare ed in cui svolgere delle precise attività.

Scelte "liberamente" - parola chiave che segna una differenza - tra diverse proposte, di studio - dall'alfabetizzazione alla laurea - lavoro, varie forme di creatività artistica. Ci sono laboratori, officine, atelier, sala computer per la didattica a distanza... Ognuno sceglie; nessuno è obbligato; nessuno sta in ozio: non ci sono televisori sempre accesi; non c'è abuso di tranquillanti. Sopratutto non ci sono suicidi - nell'ultimo anno, in tutto il circuito Apac, uno su 13.000 reclusi ; in Italia 91 su 60.000.

E neppure si verificano atti di autolesionismo, da noi pressochè universali.

Qui il recuperando non ha bisogno di parlare col corpo: ci sono, infatti, numerosi e sistematici momenti di confronto e di ascolto. L'abbiamo direttamente sperimentato: a sorpresa, a conclusione della visita, siamo stati condotti nel refettorio dove si erano riuniti i 78 recuperandi del regime chiuso, che passeranno progressivamente al semiaperto ed all'aperto: lavoro all'esterno e permanenza in família dal lunedì al venerdì; rientro in istituto nel fine settimana per partecipare alle attività formative comuni, che coinvolgono, recuperandi, formatori funzionari, direttore e volontari.



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È stato un incontro molto coinvolgente: semplice, diretto, da persona a persona; senza maschere - chi conosce il carcere sa cosa vuol dire. Mi sono emozionato, ci siamo abbracciati; ho detto loro che porterò - per quanto mi sarà possibile - il frutto di questa esperienza in Italia. E per ricordarcene, abbiamo comprato una serie di tre coloratissimi arara di legno, produzione di un  laboratorio artistico-artigianale: i due più grandi li porteremo al Centro Reconstruir a Vita, illustrandone la provenienza ai nostri ragazzi; il più piccolo lo terremo noi, testimonianza di un "esperançar" fondato sulla fiducia nelle possibilità di recupero e crescita di ogni essere umano, radice della Giustizia restaurativa e non punitiva.

 
 
 

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