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São Mateus, 7 settembre 2023

Aggiornamento: 6 feb


Oggi, sette di settembre, è la Festa dell'Indipendenza; un po' come per noi il 2 giugno ed il 25 aprile uniti.

In realtà qui si tratta di un processo ancora più complesso, in quanto si ha a che fare con il passaggio da un regime coloniale ad uno post e neo coloniale.

L'indipendenza (separazione) dal Portogallo avvenne nel 1822. L'agiografia tramanda che Dom Pedro di Braganza (poi Dom Pedro I), reggente per il padre João VI, dichiarò l'indipendenza con il Grito ( grido) "Indipendenza o morte". Da qui l'espressione "O Grito da Independência", che fornisce il motto alle celebrazioni ufficiali.

Come in pressochè tutti i processi di indipendenza dai legami coloniali, si trattò di una rivendicazione dell'oligarchia, che voleva praticare le proprie attività senza subire il controllo della corona portoghese. La maggior parte della popolazione, per altro ancora in grandissima parte costituita da schiavi (l'abolizione avvenne solo 66 anni più tardi: l'ultimo paese al mondo) non ebbe alcun ruolo.

Si tratta, quindi, di una celebrazione che - ancor oggi - riguarda l'élite (neo-coloniale), che piuttosto surettizialmente e strumentalmente, cerca di coinvolgere il popolo. Consapevole di questa contrapposizione, la Conferenza Episcopale Brasiliana (CNBB) 29 anni fa ha lanciato l'iniziativa del "Grito dos Excluídos e das Excluídas" (Grido degli esclusi e delle escluse), manifestazione che vede protagonisti le organizzazioni ed i movimenti sociali che, dalle favelas e dalle periferie, si radunano nel centro delle città, presentando, con la loro modalità animata e coreografica, le proprie rivendicazioni. Quest'anno il tema è: "Você tem fome e sede de quê?" (Di cosa avete fame e sete?).



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Torniamo ora. La partecipazione è stata emozionante e molto coinvolgente. Siamo anche stati menzionati tra i partecipanti particolarmente rappresentativi!

Come sempre, qui il tempo ha tutta un'altra misura. La manifestazione,  iniziata nel Porto - il luogo simbolo dell'esclusione - alle 13 , si è conclusa alle 18.30, oramai nel buio della notte, con la messa in Cattedrale, celebrata dal nostro amico padre Moacir - il più sensibile ai temi sociali - imperniata sull'annuncio evangelico della "pienezza di Vita per tutti" [Gv 10,10].


Si è suggestivamente articolata in varie tappe, ognuna dedicata ad una specifica problematica, che determina peculiari forme di esclusione. Personalmente, sono stato subito toccato dal fatto che per primissima cosa siano stati ricordati i detenuti.

In Brasile, ufficialmente, sono un milione (su una popolazione di 204 milioni). È il terzo paese al mondo, dopo Cina ed Usa (che hanno, però, una popolazione maggiore). In realtà questo è il dato ufficiale, che non include le molte decine di migliaia che vengono portati nelle "delegacias" (stazioni di polizia) da cui spesso scompaiono senza lasciare traccia: esecuzioni extragiudiziali. Come è stato opportunamente sottolineato, sono, prevalentemente giovani, neri, poveri, di favela, con pochissima o nulla scolarità. E infatti, proprio mentre gli organizzatori ricordavano questi dati, una pattuglia della polizia militare - che normalmente qui non si fa mai vedere - era intenta a perquisire con estrema brutalità il gruppetto di giovani che sempre staziona in un angolo del Porto.

Protagonisti della prima tappa sono stati i ragazzi di Reconstruir. Con le loro danze di origine afro testimoniano la perdurante emarginazione dei Neri, il razzismo strutturale e l'estrema difficoltà per i giovani di favela di accedere all'istruzione, e quindi ad un lavoro regolare e dignitoso.



Poi, risaliti verso il centro della città, si sono susseguite varie altre tappe, che hanno sottolineato le diverse forme di violenza, a partire da quella di genere; le gravissime carenze nel sistema sanitario (questo dovrebbe dire qualcosa anche a noi); la mancanza di lavoro e di partecipazione, che inficiano la democrazia.



Una tappa estremamente significativa è stata proposta da un gruppo di Tupiniquins, una delle due popolazioni indigene presenti nell'Espírito Santo. L'elenco dei diritti loro negati e delle forme di esclusione e di privazione che subiscono da più di Cinquecento anni sarebbe lunghissimo. Presentandosi con le loro danze e la loro ancestrale cultura, si sono soffermati su una questione cruciale e drammaticamente attuale: quella del "Marco temporale", in questo momento in discussione nelle sedi istituzionali. In sostanza, si tratta di questo.

La Costituzione brasiliana, promulgata nel 1988 dopo la fine della dittatura,  riconosce ai popoli originari il diritto di assegnazione delle loro terre, che dovrebbero venire "demarcate" ed entrare in loro possesso (in forma collettiva). In realtà questo processo è andato molto a rilento e si è concluso solo in minima parte. Il motivo è chiaro: l'opposizione (che utilizza "tutti" gli strumenti: dai cavilli legali alle forme più esplicite e brutali di violenza, incluso l'avvelenamento delle sorgenti) dell'oligarchia terriera, delle multinazionali dell'agroindustria, degli oligopoli dell'industria estrattiva. Ora questi potentati - che hanno il controllo del parlamento e l'appoggio di molti governatori (il Brasile è una repubblica federale, in cui i singoli stati hanno molte competenze e forte autonomia) - hanno avanzato la tesi che questo diritto costituzionale debba venire riconosciuto "solo" per quei popoli che occupavano le proprie terre nel 1988, l'anno di promulgazione della Costituzione: "Marco Temporal", appunto.

La tesi è chiaramente pretestuosa; la sua approvazione configurerebbe una palese ingiustizia, dato che la maggioranza dei popoli nativi è stata, spesso più volte, deportata dalla propria terra ed il senso del principio costituzionale della demarcazione è, appunto, quello di dare loro almeno una parziale restituzione.


La loro voce fatica, però, a farsi ascoltare, per lo meno nei luoghi del potre. Per questo si è levata nel "Grito dos Excluídos".



Que o Deus da Vida nos dê um bom ouvido! Grande abraço e muito axé a todos


Francesco e Maria

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