Da domenica a lunedì, in meno di ventiquattro ore abbiamo compiuto il percorso di milioni di famiglie brasiliane: dal campo alla favela.
Ad uno sguardo superficiale, osservando dall'esterno le abitazioni, potrebbe sembrare che non vi sia una grande differenza. Invece cambia tutto. Incommensurabilmente in peggio. In campagna può esservi povertà; certamente c'è, se misuriamo con i nostri (discutibili) criteri, ma non c'è la miseria. Che, invece imperversa nelle favelas.
Miseria economica e, più ancora, morale. Manca tutto, a cominciare dall'aria. Il tanfo, l'oppressione, il senso di chiuso, l'assoluto squallore che assalgono non appena si varca la soglia di una di queste baracche - non importa di che materiale siano fatte le pareti: mattoni, legno, cartone, teli di plastica - sono gli stessi di quando si entra nella cella di un carcere. Ed è lo stesso il senso inebriante di liberazione che accompagna il primo respiro all'uscita, sia pur rinanendo nei vicoli angusti della favela. In campagna, invece, l'aria circola liberamente; ci sono spazio e dignità. Qui si capisce - esattamente come in un carcere - quanto strettamente le due cose siano compenetrate. E, nella loro unione, rappresentino la base materiale "e" spirituale della libertà. Per cui, quando mancano, questa è radicalmente negata. Ed è questo, propriamente, la favela: mancanza, privazione di tutto: spazio, intimità, aria, dignità, libertà, sogni, progetti, futuro... Solo deprivazione ed esclusione. Non è veramente parte della città: è "altro". Chi ci vive - o vegeta - non ha lo statuto del cittadino - "cidadania" - è considerato sub-umano, appunto "favelado".
La favela, oggi, è la diretta derivazione di quello che era un tempo - in realtà non troppo remoto - la "senzala" (alloggio degli schiavi): "senzala urbana". Non stupisce, quindi - non dovrebbe stupire - che qui vigano altre regole, un diverso codice rispetto a quello ufficiale. Non essendo la favela parte della città, non ne riconosce le leggi. Ha le proprie, per altro estremamente rigorose. Ancora una volta, proprio come in carcere. La figura più rispettate è quella del trafficante (di droga: il "tráfico" per antonomasia).
Qui nella favela del Porto, dove è situato il nostro Centro e dove vivono i nostri ragazzi, campeggiano scritte e murales inneggianti a Lourenço, idolatrato "chefe do tráfico", morto pochi mesi fa, annegato qui nel fiume in circostanze poco chiare. L'intera favela è in lutto. E realmente se ne avverte la mancanza: c'è molta più tensione, lo spaccio avviene in modo più disordinato, alla luce del sole (o, dopo il tramonto, della luna); senza le precedenti cautele che garantivano una certa sicurezza e protezione agli abitanti "normali". Lo stato, il potere pubblico sono assenti come prima. Si attende l'emergere di un nuovo líder. Per ora, il ruolo è assunto dalla vedova, madre di uno dei nostri ragazzini, sensibile, molto intelligente ed affettuoso.
Come tanti altri, è conteso tra noi: Centro Reconstruir, scuola, educazione, sogni e progetti di un futuro onesto e dignitoso e la via dell'illegalità, con il suo inevitabile percorso di criminalità, violenza, crescente emarginazione, detenzione, morte.
È questa la lotta di ogni giorno ("a luta do dia a dia"); il senso della presenza e dell'attivitá del Centro, proprio qui, dove più se ne sente il bisogno, in un difficile, delicato equilibrio. Que o Deus da Vida, da Justiça e da solidariedade nos ajude e acompanhe!
Grande abraço com muitíssimo carinho e axé
Francesco
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